Kintsugi è un romanzo “vero”, perché nelle vicende dei protagonisti, nel loro modo di essere, di relazionarsi e di pensare, inserisce sentimenti non sempre necessariamente positivi. Massimo, Martina, Maia e Maria sono sì amici, ma il loro legame non è privo di scossoni, né di alti e bassi. Nel corso del libro, che abbraccia 25 anni della loro vita, li vediamo crescere, scontrarsi, amarsi, ferirsi, separarsi e ricongiungersi diverse volte perché è vero che sono uniti, ma sono anche molto diversi l’uno dall’altro e le esperienze di vita li danneggeranno per poi rifoggiarli in modo differente, probabilmente più bello. Sì perché l’arte del kintsugi, della quale è detentore Aki, il nonno di Massimo, non è applicabile solo ai vasi rotti che possono essere rimessi insieme con una lacca arricchita da polvere d’oro, ma è una filosofia di vita che va bene anche per l’uomo in generale: l’uomo, rovinato, messo alla prova dall’esistenza, si crepa, si spezza, ma ha la forza di rimettere insieme i cocci e rinascere, e non importa se si vedranno cicatrici profonde, perché per l’arte del kintsugi esse non sono altro che una nuova bellezza: “nella vita si deve cercare il modo di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di crescere attraverso le proprie esperienza dolorose, di valorizzarle, esibirle, e convincersi che sono proprio queste cose che rendono ogni persona unica, preziosa”.
È una lettura solo in apparenza semplice: nella linearità si svela profondità e saggezza, è un romanzo ricco, intriso di tematiche forti come la maternità (nelle diverse sfaccettature: desiderata, non cercata, accettata); l’anoressia; la gelosia; l’invidia, poderosa nonostante l’amicizia; il tradimento amaro dell’amore e della fiducia…
Il percorso verso la guarigione è lungo e doloroso e non privo di ferite e, ovviamente, delle relative, dignitose, cicatrici.
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