28 novembre 2024

RECENSIONE - Storia di Ninì e altre facezie - di Elisabetta Magnani

 



N, ovvero Ninì, ovvero Nera, figlia di emigranti è un’emigrata lei stessa. Partendo dall’infanzia, nello sviluppo delle figure del padre e della madre, del caos della loro casa si delinea il carattere di Ninì, sempre tesa alla ricerca di un nuovo ordine. Sarà l’incontro con Accio, il cappellaccio, dopo una girandola di eventi surreali che cambieranno il ritmo della narrazione, a portarla a una nuova consapevolezza di sé e al conseguente raggiungimento delle sue aspirazioni.

Storia di Ninì e di altre facezie è un racconto diviso in due parti la cui protagonista è, appunto, Ninì. La prima parte ci presenta la famiglia il nucleo in cui si è formata Ninì: figlia di emigrati, bambina e ragazzina “strana”, preferisce la compagnia dei gatti a quella delle amiche e riesce a vivere bene, nonostante la infastidisca il caos continuo di una casa disordinata e la protezione esagerata dei genitori, grazie alla sua fantasia e alla sua ironia guardando quasi con distacco il mondo che la circonda e rifugiandosi nel sogno di diventare, dopo l’Università, una scrittrice famosa e di andare a Parigi. Questa prima parte del racconto, coincidente con la prima parte della vita di Ninì, sembra quasi un’attesa del “dopo” che verrà, quello del sogno realizzato.

La seconda parte è quella “magica”, surreale. Ninì è, finalmente, a Parigi, la Parigi che ha sempre sognato, quella di autori importanti che lei ama e che ha studiato, come Maupassant, ma soprattutto Stendhal verso il quale ha una predilezione particolare. Come Stendhal quando iniziò a viaggiare, così Ninì si sente ebbra, entusiasta di essere nella città artistica per antonomasia. Si sente libera, finalmente, di esprimersi senza limiti anche grazie a una insolita sorta di storia d’amore con un cappellaccio del quale si ritroverà a non poter più fare a meno perché l’attira, perché, indossato, la rende più bella, più viva: “(…) vide il suo riflesso nella vetrina di un cafè. Notò i suoi occhi, non li aveva mai visti così. Sotto la falda avevano acquistato intensità (…). La forma del cappello (…) completava perfettamente il viso” e finalmente “non si sentiva più trasparente (…)”. Ma Accio (il nome che Ninì dà al cappello) fa di più: le trasmette un certo furore, una certa vertigine che la sprona a vivere con sfrontatezza esperienze che non avrebbe mai avuto il coraggio neanche di pensare, avventure surreali; le fa da guida nello scrivere in modo impetuoso ed esaltato pagine e pagine della sua futura opera.

Mi è parso di cogliere nel racconto, un certo parallelismo, o identificazione, tra la figura di Ninì e quella di Stendhal con le dovute trasposizioni: per lui il paese della bellezza e del piacere di vivere era l’Italia, per Ninì è la magica Parigi; entrambi, prima di spiccare il volo dalla casa di famiglia, sono alla ricerca della felicità travolgente e tutti e due vivono l’esperienza di una condizione emotiva molto coinvolgente che li tuffano in una sorta di estasi.

Poche pagine ben scritte.

Lettura apparentemente semplice, ma ricca.










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