È l’autobiografia di Katia in un momento particolare della sua vita, che poi è anche la vita, purtroppo breve, della sua figlioletta Aurora, piccola combattente che ha fatto fronte al dolore e alla sofferenza per tredici mesi. È anche un atto d’accusa contro la malasanità e, di contro, un ringraziamento a chi invece l’ha sostenuta. È un grande grido di dolore che si libera dal cuore di una madre la quale, anche dopo diversi anni, sente forte il bisogno di chiedere: “Perché?”.
Katia è alla sua prima gravidanza, quella che si porta con un senso di gioia e dolcezza, non le stesse che si vivono nelle volte successive; sta attenta a tutto pur di non ledere alla piccola vita che cresce dentro di lei, eppure partorisce una bambina affetta da una sindrome che la porterà alla morte. Il responso immobilizza i neogenitori nel dolore. In questa sorta di limbo ospedaliero in cui tutto sembra avere ritmi, leggi e gestione diversi dal mondo esterno, cambia ogni prospettiva, tutto risulta estraniato e ovattato in modo quasi irreale… invece, è tutto troppo reale e Katia spera in un miracolo: “prego tutti i giorni e tutte le notti perché ciò avvenga, non so più a cosa attaccarmi, mi sembra di vivere in un incubo”; la disperazione di Katia è tangibile, come è tangibile la sua rabbia di madre impotente dinnanzi all’insensibilità e alla negligenza di certi mediconzoli (lasciatemi passare il termine perché i Medici , quelli con la “M” maiuscola, sono altri!) come quello che deve, prima di fare il suo dovere, finire di ingozzarsi di bignè o quello che si urta di dover andar in sala parto proprio mentre sta per finire il suo turno… però ci tengono a rimproverarla e a ricordarle per bene le gerarchie: “Signora sono io il medico non lei (…)”, poco importa se tutto ciò è infarcito di mancanza di tatto e di crudeltà : “(…) lo vuole capire che sua figlia non arriverà a domani mattina?”. Si rendono conto questi dottorucoli di aver a che fare con mamme che stanno cercando di accettare l’imminente morte del proprio figlio? Fortuna, non sono tutti così pessimi, ci sono anche dottori e infermieri comprensivi e umani che fanno il loro lavoro con coscienza; fortuna ci sono altre mamme, quelle che soffrono come Katia, che sanno offrirle quelle parole di conforto che vorrebbe sentirsi dire senza, per questo, alimentare false speranze… perché nasce la necessità di confrontarsi con persone che vivono un’esperienza analoga, solo per il semplice motivo che possono capire fino in fondo il dramma che lei sta attraversando…
“Bambini (…) tutti con il sorriso innocente che ti illumina il cuore e subito dopo ti sprofonda nella disperazione, quella che vedo negli occhi delle mamme (…)”: è quando vivi dolori come questo di Katia che tutto, alla fine, risulta irrilevante e inutile, “si accentuano i sentimenti veri, si annullano le banalità”.
All’inizio ho detto che Oltre l’impossibile è un’autobiografia e una denuncia della malasanità uniformandomi al genere del libro; con il cuore dico a voi lettori che è di più: è, dopo tutte quelle che questa mamma dolcissima ha cantato alla sua Aurora, l’ennesima ninna-nanna amorevole verso la propria creatura ormai non più sofferente, un ulteriore gesto d’amore oltre il dolore.
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